“Danze, nuvole e limonate” di Marcello Rizza

Liberamente ispirato dal brano “Gildo” di Giorgio Gaber

Gildo non avvertiva più lo scandire del tempo. Il presente e il passato si combinavano in Kairos – nella cristallizzazione dell’attimo infinito – e per questo lui non aveva età. Il ritmo del pensiero lo faceva battere dal cuore metronomo e, se l’estetica della ragione va ad attingere da quell’organo, è li che prende forma e vita l’anima. Seduto sulla panchina, arredo di quel giardino tagliato di fresco, nell’agostana quiete, con i sensi sperimentava la natura e con la mente libera codificava e amplificava quell’esperienza sensoriale. Seguì il viaggio di un calabrone ronzante tra i boccioli e a ogni fiore a cui giungeva l’insetto dava il nome: Barbara, Jlenia, Alessandro, Vanda, Raffaella, Giovanna, Noemi, Claudia, Andrea, Itala. Erano nomi di uomini e donne che meritavano la dedica di un fiore, anche se non ricordava quando e perché quelle persone fossero state belle, quale tipo di percorso avessero condiviso, quanto di meritevole avessero inscenato quando lui aveva vissuto il tempo. Colse il zampettìo di un inarcante millepiedi, certo che calzasse tutte scarpe da tip tap, e ne seguì il sincopato ritmo. Vide gli alberi lontani, ne udì scorrere la linfa e stillare la profumata resina sulle cortecce, ne colse la dilatazione vitale nella formazione dei nuovi anelli. Inquieti pennuti richiamarono altri agili volatili che si libravano incrociandosi su traiettorie brevi e precise. Il vento lo soccorse, raccolse ronzii e calpestii, cinguettii e scricchiolii, e nel refolo li organizzò come strumenti musicali per concertare un flamenco, un sussulto a ballare. Per altri sarebbe stato impossibile ricavare una melodia da quei brusii. Gli altri fanno la limonata col limone, ma a lui piaceva prepararla con le fragole, la cioccolata e, era il suo ingrediente segreto, la pasta dentifricia. Qualcuno lo vide pesantemente alzarsi dalla panchina, dimentico del bastone da appoggio, e avrebbero giurato che di lì a poco, con quei movimenti strani e quel passeggio involuto, sarebbe cascato a terra. Gildo si sentiva leggerissimo e forte mentre, come un Hidalgo di Cervantes distratto dal fronteggiare greggi di pecore e assorto dalla bramata Dulcinea stringendo a sé una nuvola, volteggiava al ritmo del suono andaluso. Come a Don Chisciotte, gli pareva di udire voci dispettose e malvagie che però destrutturava per togliergli potere, per addomesticarle e assimilarle agli altri suoni che orchestravano l’iberico canto. Nulla e nessuno l’avrebbe distolto da quella danza elegante e maschia, perché la nuvola gli sussurrava di continuare a stringerla nel ballo, che per lui si sarebbe fatta amante e, anche se non capiva più cosa volesse dire “amante”, tutto ciò lo eccitava. Si avvicinò una donna magra, asciutta da una vita dedicata al servizio, sui cinquant’anni, vestita con un camice bianco odoroso di lavanda. Teneva i capelli corvini raccolti a crocchia, come ogni mattina dopo aver preso i voti, prima della liturgia della terza ora, prima che spuntasse l’alba. Impertinenti ciocche, che nelle ore trascorse nelle faccende si erano liberate, facevano capolino da sotto una candida cuffia. Con una piccola borsa di tela bianca, dove teneva i segreti rimedi ereditati dalle consorelle anziane, si muoveva in sicurezza, graziosa nei comportamenti e autorevole nel contesto in cui si trovava. Raccolse il bastone da appoggio dell’uomo e porgendoglielo gli si rivolse:

Gildo… Gildo, la stavamo cercando. Non si affanni che fa caldo. È l’ora dell’iniezione”.

Continuò a ballare con la sua creatura di cielo, con la sua Dulcinea dall’incarnato lattiginoso, incurante del richiamo. Nulla e nessuno l’avrebbe distolto da quella danza elegante e maschia. La donna, sorridendo su chissà quale fantasia stesse vivendo il buon Gildo, pescò dalla borsa una caramella incartata di giallo. Gliela porse dolcemente, lo sguardo affettuoso e intrigante, sicura della persuasione del suo gesto. La nuvola amante di colpo sparì, i piedi si quietarono, il corpo si protese verso la donna, la mano aperta. Raccolse il dono di quell’angelo, scartò la caramella e la mise in bocca succhiandola. Distratto, con calma e a braccetto, mentre la donna gli chiedeva di quella danza e di quella fantasia, si fece accompagnare verso la struttura in stile coloniale che l’ospitava. Gildo non l’ascoltava e assaporava felice la caramella al limone che sapeva di fragole, cioccolata e pasta dentifricia.

cc

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