“Sono una scrittrice!” di Livia Trentini

Questa mattina mi sono svegliata con la determinazione di essere una scrittrice. Ancora in pigiama, mi preparo la colazione, un caffè con fette biscottate e marmellata, accendo il pc, apro un bel foglio bianco ancora intonso in word e…

E il cursore mi guarda, ammicca, sembra voler dire: “Sono pronto, in trepidante attesa, fammi muovere dalla mia posizione statica, non vedo l’ora di volare su questo mare bianco!”

Dunque partiamo dal titolo “La primavera” (banale), “La condizione delle donne durante la rivoluzione industriale” (storico, avevo 5 in storia!), “Assassinio per procura” (troppo intricato, mi perdo anche in città, figuriamoci in un racconto), “la vita dei gatti” (non ho un gatto).

Cominciamo a scrivere, poi il titolo verrà da sé. Colazione finita e pagina bianca.

“Su, facciamo girare le due celluline o facciamo fare uno scontro ai due neuroni e mettiamo insieme delle frasi coerenti di senso compiuto”, maledetto cursore mi prende pure in giro.

Dunque, incrocio le mani, scrocchio le dita e sono pronta a iniziare. Sono sicura che nel momento in cui inizierò a scrivere qualcuno mi disturberà, il telefono con le solite proposte di cambio fornitore di luce, gas, acqua o di acquisti convenienti di vino, olio, formaggi e tante altre offerte. Mi dispiace per chi chiama, visto che è un lavoro, ma di solito la risposta standard è: “Mi spiace ma la signora è fuori, non sono autorizzata a cambiare o comperare, richiami fra circa 2 mesi”. Giusto per non essere scortesi. Però il telefono oggi non squilla, meno male così posso concentrarmi. Dove ero rimasta? sì certo, devo iniziare il primo paragrafo.

Se fossi su una cuccia con una macchina da scrivere avrei già l’inizio – Era una notte buia e tempestosa – però queste parole mi dicono qualcosa, forse sono già state utilizzate.

Dunque… ma proprio nessuna notifica dai social, potrei essere distratta proprio da quelle con tanti argomenti interessanti – guardate sono sbocciate le prime viole; il mio cane Pallino oggi è felice; vi ricordate quando da piccoli eravamo belli/brutti/intelligenti/mangiavamo la terra/succhiavamo le sponde del lettino verniciate di prodotti tossici/se tornavamo tardi arrivava la ciabatta del papà dritta in testa – e tanti post uno, peggio… ops!… meglio dell’altro.

Oppure i vari influencer con questa crema miracolosa mi sono sparite le rughe/questo prodotto è fantastico ed è necessario in ogni cucina/meno male che ho comperato questa tuta da ginnastica, mi fa sembrare più magra senza sforzo/sono dimagrita senza nessuna fatica, mangiando queste buonissime barrette al gusto di fegato e banana – e pensare che vengono ricompensati per le cose che propongono e ci sono persone che li seguono, che cosa triste non pensare con la propria testa. Sì, ma tanto non sono iscritta a nessun social, per cui le notifiche non mi toccano e non possono interferire con la mia decisione di diventare una scrittrice.

Ecco è arrivata l’ispirazione… SI RI-ricomincia! Ma una voce dal telefono mi blocca:

Sì, dimmi come posso esserti utile”

Ma chi sei?”

Sono Siri il tuo assistente vocale, dimmi pure”

Ma che fai?”

Sto aiutando circa tre milioni di persone che hanno detto Ehi Siri!”

E come le aiuti?”

Mettendole in contatto con i propri cari, cercando informazioni in internet, per esempio con la ricetta della torta di mele, con i programmi alla tv, le previsioni meteo”

“Ma fai anche cose più interessanti, tipo darmi suggerimenti per un racconto?”

Se mi dici il genere posso aiutarti”

“Pensavo a qualcosa relativo a… o forse… ma anche… non lo so ancora, tu che dici?”

Dico che ci sono tanti argomenti da leggere, però si deve avere almeno una vaga idea”

“Hai ragione, ma allora non mi servi a niente”

Mettimi alla prova”

“Scrivi un racconto di circa 5000 caratteri sul un argomento a tua scelta”

Scusa, non ho capito”

“Visto che aiuti tutti, ora puoi aiutare anche me scrivendo un racconto ironico o divertente, oppure romantico o un saggio che possa aiutare le persone o anche un manuale per suggerire qualcosa”

Ora ci penso. Ironico, divertente, romantico, un saggio, un manuale… lasciami pensare” “Ehi Siri, sbrigati non ho tutto il giorno per diventare una scrittrice”

Eccolo: una persona analfabeta voleva scrivere un racconto (ironico) non sapeva come iniziare e gli cadde la macchina da scrivere sull’alluce facendolo ballare per il dolore (divertente, visto da fuori), la sua fidanzata si prese cura del suo ditone arrossato e gli portò un mazzo di fiori e della cioccolata, dicendogli che lo amava anche con un dito completamente nero per la botta (romantico) lo “scrittore” cercò di dire qualcosa di intelligente (saggio) e per finire si fece leggere un libro che lo consigliò di darsi all’ippica (manuale)”

“Ehi Siri, ma mi stai prendendo in giro? Non è questo che ti ho chiesto!”

Siri non risponde.

“Ehi Siri…”

Mi spiace, mettiti in coda, adesso devo risolvere problemi per gli altri duemilioninovecentonovantanovemila persone che forse hanno richieste migliori delle tue.”

Con le pive nel sacco chiudo la pagina in Word, spengo il pc e vado a vestirmi, invece di scrivere andrò in libreria a comprarmi un libro.

“Stili a confronto” di Bianca Patrizi

La bambola bionda 90-60-90 entra bilanciandosi abilmente sui trampoli con zeppa dieci e mi si avvicina scuotendo i boccoli freschi di parrucchiere.

«Non c’è Manricoi?», mi chiede guardandosi in giro. Sto per rispondere, ma il telefono squilla e le faccio cenno di attendere: «Coiffeur Manrico. Buongiorno, sono Ulricaii».

Mi sento sempre un po’ a disagio, quando mi presento, perché se becco il melomane ironico di turno le battute si sprecano: «Ah, e non ha visto per caso Rigolettoiii?», mi hanno già chiesto, oppure, «Scusi, ho sbagliato numero, cercavo Radamèsiv».

«Solo un attimo, per cortesia», dico al mio interlocutore e lo metto in attesa.

«Mio fratello è andato a mangiare un boccone», sorrido alla bambola che è uscita dalle sue mani solo mezz’ora prima, «se intanto vuole accomodarsi… dovrebbe arrivare a minuti».

Le accenno il divanetto a fianco dell’acquario, dov’è seduta la figlia sfigata della seconda moglie dell’avvocato che ha lo studio sopra di noi e che aspetta la madre. Sfigata perché è una cosina scialba e senza forma: capelli appiccicati alla testa, occhialini, maglione over-size e i jeans di quando era giovane suo padre. Per dire, s’intende. Riprendo la telefonata lasciata in sospeso, annoto sull’agenda telematica la prenotazione del cliente e riattacco. Nel frattempo la bionda boccoluta e la sfigata hanno incominciato a chiacchierare fra di loro.

«Ma tu che lavoro fai, scusa?», chiede la bambola dopo aver osservato con aria perplessa lo strano abbigliamento della nerd.

«Lavoro nel Centro Olistico qui accanto», le sorride la cosina informe e io rettifico quanto ho appena pensato: non è nemmeno una nerd.

«Centro Olistico?», chiede la bambola sempre più perplessa, «Vuoi dire che vendete olio?»

«Non esattamente, ma ci sei vicino, in un certo senso», la non nerd continua a sorridere placida alla bambola che ha la classica espressione dell’Oca Giuliva e le spiega: «in pratica ci occupiamo di natura. Cerchiamo di avvicinare la gente a tutto ciò che è naturale: nutrizione, respiro, movimento, tecniche di guarigione… Conduco una rubrica alla radio, intorno all’ora di cena su questi argomenti. Ascoltaci, se vuoi saperne di più, o fai un salto nel nostro centro a dare un’occhiata. Il primo trattamento è sempre scontato».

Il telefono suona di nuovo e sono costretta a rispondere perdendo il resto della conversazione.

«Coiffeur Manrico. Buongiorno, sono Ulrica».

Sì, però anche i miei genitori! Non potevano appassionarsi degli U2, invece che di Verdi? Mio fratello entra, scorge la bambola seduta impettita per non sciuparsi l’abito firmato e le va incontro a braccia tese.

«Ma tesoro, cosa ti è successo? Qualcosa non va?», le chiede preoccupatissimo. Più all’idea di perdere la cliente affezionata che ci lascia giù metà del suo stipendio tutti i mesi per cambiare look che il suo scalda-letto di turno e l’accompagna premuroso oltre la porta di vetro smerigliato verso il salone di bellezza.

La seconda moglie dell’avvocato del piano di sopra esce dalla stessa porta con la sua nuova acconciatura rosso fiammante e si specchia soddisfatta, mentre io pigio sui tasti del computer per fargli sputar fuori lo scontrino. Altra cliente di un certo peso che sarebbe un peccato perdere. Peccato anche che lei non sia mai riuscita a convincere la figlia sfigata a farsi dare una sistemata da Manrico. Ne avrebbe proprio bisogno. La madre paga senza batter ciglio (ma se lo può permettere) e la figlia sfigata si alza dal divanetto.

«Ti riaccompagno a casa?», le chiede con le chiavi dell’auto già in mano.

«Sì, grazie, cara», le risponde la fiaccola fiammeggiante, ma poi ha un ripensamento. «Fra un attimo. Prima faccio un salto su da tuo padre, così ci mettiamo d’accordo perché non so ancora di preciso a che ora vuol partire», e lascia la cosina informe lì dov’è, ma sulla porta ha un rigurgito di cure materne e aggiunge: «Tu sei sicura di non voler venire con noi, vero, cara? Sharm è così gradevole di questi tempi! Ti farebbe proprio bene un po’ di mare…», e esce, senza aspettare la risposta. La cosina informe sorride, pacata e quasi divertita. In quella la porta si riapre e un ragazzo niente male, con un sorriso da pubblicità di dentifricio entra portandosi appresso una ventata di non so cosa, ma so che è piacevole e, istintivamente, ricambio il sorriso.

«Tu sei Ulrica, vero?», mi chiede avvicinandosi, «Salve, io sono Rudy», e mi porge una mano dinamica e fresca che stringo con piacere, «una mia amica, vostra cliente, mi ha consigliato di rivolgermi a te perché avrei un favore da chiedere».

«Dimmi», gli sorrido già propensa a concederglielo.

La bambola bionda esce dal salone di bellezza scortata da mio fratello e si ferma sorpresa.

«Rudy!», esclama felice di vederlo. Evidentemente i due si conoscono e la cosa mi sgonfia l’entusiasmo. Per quanto non sia al livello della non nerd e mi difenda bene (nome a parte), non arrivo certo al 90-60-90.

Le voci si mescolano, le risate anche, il telefono squilla e io perdo il bandolo della matassa. Alla fine capisco che tutto si riduce alla richiesta di un taglio da urlo per un batterista che non si può concedere la mano esperta di Manrico.

«Non possiamo venirci incontro reciprocamente?», suggerisce una voce femminile trillante e gioiosa che esce dalla cosina informe con i capelli a spaghetto scotto. «Scusate se mi intrometto», sorride a tutti e nessuno, «ma non ho potuto non sentire quello che dicevate. Il batterista di cui parlate è il mio ragazzo. Se voi gli fate lo sconto, io vi posso offrire un trattamento a prezzo ridotto. Che ne dite?»

Il gruppetto si blocca perplesso e si guarda titubante valutando la proposta.

«Questa è un’idea geniale!», sorride Rudy e io mi incanto a guardarlo, «Che si può estendere a tutti i clienti, non pensate?»

«In che senso?», chiede Manrico diffidente.

La bambola si anima di colpo perché è la prima a capire il meccanismo e scuote i boccoli biondi.

«Questo è uno zot da Oscar, Rudy!», esclama e guarda a turno tutti gli altri, «Ma non capite? I clienti abituali di Manrico potranno godere di uno sconto speciale presso il Centro Olistico e gli affezionati del Centro Olistico potranno godere di un trattamento scontato da Manrico! Questo vuol dire ampliare la propria clientela e di questi tempi non mi pare proprio una proposta da sputarci su! O no?».

L’affare sembra interessante e Manrico propenso ad accettare. So già che trascorreremo la serata alla scrivania a conteggiare percentuali e quando tutti se ne vanno, rimango con la piccola sfigata che mi sorride porgendomi un opuscolo.

«Dia un’occhiata ai nostri trattamenti», mi suggerisce, «quello con le pietre calde è specifico per decontrarre i muscoli e liberare dalle tensioni. Sarebbe perfetto per alleviare il suo mal di schiena», mi informa e si risiede sul divanetto a sorridere all’acquario.

La fisso allibita, col catalogo in mano, domandandomi perché i pesci si siano improvvisamente messi a girare in tondo scodinzolando allegramente, quando di solito vagano annoiati fra le alghe finte.

E come cazzo ha fatto a sapere che soffro di mal di schiena?

Che anche lei si chiami Ulrica? Ma che sia quella vera?

iManrico, protagonista dell’opera Il Trovatore di G. Verdi

iiUlrica, la Maga, co-protagonista dell’opera Un Ballo in Maschera di G. Verdi

iiiRigoletto, protagonista dell’opera omonima di G. Verdi

ivRadamès, co-protagonista dell’opera Aida di G. Verdi

“Ufficio personale: ultima porta in fondo a destra” di Bianca Patrizi

Noi siamo quelli dell’ufficio personale. Quelli che si beccano le lavate di capo dai superiori che vorrebbero tutti in servizio a tutte le ore e le parolacce dai colleghi che ci prendono per quelli che decidono chi sta a casa e chi no, chi si gode l’indennità di cassa o il premio di produzione e chi no. E io sono il responsabile di quell’ufficio.

Mi sono fatto la mia brava gavetta dopo la laurea e il concorso; mi sono fatto ore di straordinari per capirci qualcosa nelle decisioni delle alte sfere, ma come ripeteva spesso un mio docente all’università “più sali in alto, più hai una visione ampia della situazione, più stai in basso, più la tua visione è limitata”. Talvolta mi sembra ancora di avere la testa infilata in un water. E serve a poco tirare lo sciacquone.

Così mi arrangio con quello che ho: me stesso. Sgretolato l’entusiasmo iniziale di fronte alle ingiustizie, deluso dall’imbecillità dilagante di chi vede il sassolino davanti alla propria scarpa ma non il pozzo nero due passi più in là, mi adeguo all’andazzo generale e sto alle regole. Che in pratica si riassumono in una, unica, ma inderogabile: salvarmi il posto di lavoro. Sono diventato duro, elastico e morbido, ma soprattutto invisibile.

Non ho il fisico atletico e l’addome tartarugato del belloccio che impera nel commerciale, né l’aria fascinosa del Vice Presidente, sessantenne vissuto e danaroso che ha fatto assumere l’Oca Giuliva che passa le giornate a fotocopiare documenti. La chiamano Kama o Sutra e dicono che se la siano trombata tutti, promettendole un posto migliore, ma lei è sempre lì, incollata alla fotocopiatrice. Oggi in sala mensa era seduta allo stesso tavolo della Vispa Teresa della contabilità due piani più sotto: una che non scherza, sempre di corsa, ma puntuale come un orologio svizzero – di quelle che se arrivano con cinque minuti di ritardo ne recuperano dieci – una specie di macchina da guerra.

L’Oca Giuliva – che giuliva non era poi tanto in quel momento – si lamentava dei colleghi maschi e la Vispa Teresa della collega incinta, ma entrambe erano d’accordo nel sostenere che quelle merde dell’ufficio personale se ne sarebbero fregate dei loro problemi. Non mi è piaciuto sentirmi dare della merda, ma d’altro canto, visti i precedenti… Oltretutto sono stato chiamato con nomi peggiori, come checca e frocio, per dirne un paio. Se non altro è la prima volta che quelle due, che si sono sempre guardate in cagnesco, si parlavano sedute allo stesso tavolo. Ho addirittura sorriso quando l’Oca Giuliva ha chiesto alla collega come facesse ad avere quel fisichino asciutto e pimpante da teen-ager nonostante un marito e due figli. Al che la Vispa Teresa è rimasta con la forchetta a mezz’aria a fissare allibita l’altra come se fosse stata colpita da uno zot, come dice Rudy, la nuova recluta che il mattino smista la corrispondenza.

Se ne sono andate insieme a bersi un caffè. Nessuna delle due mi ha notato e io ho finito di leggermi la pagina culturale del quotidiano. Ho scoperto che stasera inaugurano un locale, giusto a due passi da casa mia, con un concerto di Hot Jazz. Roba da pelle d’oca.

Così, finita la cena, sono andato a dare un’occhiata. Mi sono trovato un tavolino d’angolo, mi sono goduto i primi accenni del sax e ho ordinato un Single Malt invecchiato dodici anni, anche quello da brivido.

Cazzo, mi è preso uno zot quando ti ho visto! Cosa ci fai qui?”, mi ha chiesto una voce conosciuta mentre sorseggiavo il Whiskey, “Non immaginavo tu fossi tipo da Hot Jazz! Posso sedermi?”

E tu cosa ci fai qui?”

Ci lavoro. Faccio le pulizie”, mi ha sorriso, “sai, smistare corrispondenza per mezza giornata non mi basta: o ci mangio o ci pago l’affitto”.

Poi ha accennato al batterista, un ragazzino magro, ma scatenato in un a solo frenetico: “Questa sera sono venuto prima perché ci ho accompagnato un amico. Sono settimane che prova con la band”.

L’idea mi è venuta in quel momento. Forse è stata la musica a ispirarmi. Forse la vicinanza di Rudy. Forse un rigurgito di entusiasmo giovanile. Sta di fatto che la mattina successiva quando Rudy mi ha portato la corrispondenza, con due occhiaie che gli arrivavano al mento, avevo già scartabellato le schede degli interessati, steso un conteggio dettagliato di quanto sarebbe costato alla società assumerlo in pianta stabile con un progetto di formazione, (che comprende la fotocopiatrice), spostare l’Oca Giuliva al reparto contabilità, evitando al contempo l’assunzione di una seconda ragioniera per sostituzione di maternità. Ero già stato anche dal Vice-Presidente sessantenne, vissuto e danaroso che non sapeva più come scollarsi di dosso l’Oca – una volta Giuliva – che aveva assunto con tanto libidinoso entusiasmo.

Com’è finita ieri sera?”, ho chiesto a Rudy, “Il tuo amico ha…”

Non è il mio amico”, mi ha interrotto secco, “è solo un vecchio compagno di scuola. Il figlio più piccolo della Vispa Teresa dell’ufficio contabilità, ma se le dici che passa le notti a suonare in una band, racconto in giro che ti fai l’Oca Giuliva del piano di sotto”.

Non è il mio tipo”, ho scosso la testa e Rudy si è smollato di colpo.

Ah no?”, ha chiesto piacevolmente sorpreso.

No”, ho confermato ancora titubante. Poi mi sono deciso: “Senti, Rudy…”

Zot, per gli amici”, mi ha sorriso porgendomi la mano e io gliel’ho stretta. È un bravo ragazzo, con una mente pronta, appassionato di cinema e musica e molto, molto dolce.

Senti, Zot, me lo faresti un piacere? Avrei bisogno di parlare con la Vispa Teresa, con l’Oca Giuliva e con te per un nuovo progetto già autorizzato dalle alte sfere. Non è il massimo come soluzione, ma è un inizio. Potresti portarmele qui tu, per favore?”

Una alla volta o tutti insieme appassionatamente?”, mi ha chiesto lui con un sorriso ironico.

Prima uno alla volta, poi tutti insieme”, ho risposto sedendomi sulla mia sedia girevole mentre lui usciva dall’ufficio con un cenno di assenso.

Avevo una manciata di minuti per studiare come presentare il progetto e renderlo accettabile. Il tempo per l’Oca – che forse sarebbe tornata Giuliva – e per la Vispa Teresa di salire al quinto piano e percorrere il corridoio fino all’ufficio personale: ultima porta in fondo a destra.

“Ottima e gustosa idea” di Livia Trentini

Una mattina, al bar con le mie care amiche Bianca e Dalia, si chiacchierava di cucina, tutte golose ma tutte stufe di mettere in tavola sempre gli stessi piatti.

Mi piacerebbe fare un corso di cucina, imparare nuove ricette, fare una bella figura con gli ospiti e stupire i figli con nuovi piatti”, esordisco io.

Hai ragione, anch’io vorrei imparare qualcosa di diverso, non solo pastasciutte, bistecche e insalata”, mi segue Bianca.

La fate facile voi due, dove andiamo a fare il corso non ho visto nessuna possibilità in zona, poi c’è da considerare la famiglia, il lavoro, il tempo… non so se riuscirò ad organizzarmi per tutto”, fa presente Dalia.

Provo a cercare qualcosa in Internet e vi faccio sapere!”, la butto lì con l’entusiasmo a mille.

La mia ricerca produce, dopo qualche giorno, il risultato sperato. Ci sarà un corso di cucina in un ristorante della zona, tenuto da un noto Chef che ha lavorato diversi anni a Parigi. Giro il link a Bianca e Dalia e decidiamo di iscriverci tutte e tre. Due settimane di pastasciutte, bistecche e insalata ci separano dalla data d’inzio.

Arriva la fatidica serata, non ero mai entrata nella cucina di un ristorante. Macchinari, accessori vari, abbattitore, forno auto pulente (sembra il frigorifero di una pasticceria)… mi fermo incantata a osservarlo. Quanto mi piacerebbe averlo nella mia cucina, certo che devo eliminare un po’ di mobili, però, quanti arrosti, torte, pesci, da cucinare tutti insieme! Dopotutto in famiglia siamo in tre…

Iniziamo con un giro di presentazioni, siamo in dieci partecipanti di cui nove donne, poi lo Chef e l’aiuto Chef. Ci viene spiegato brevemente come funziona il corso, ognuno di noi preparerà un piatto diverso, e ci viene consegnato il menù della serata, dall’antipasto al dolce. Finito di cucinare mangeremo tutto. Bello questo corso, gustoso.

Si parte con alcune basi della cucina spiegate per bene dallo Chef:

Il fondo di cottura viene fatto con le ossa di animali, cipolla, sedano, carota, olio, vino bianco, si fa cuocere per parecchie ore poi si filtra, si butta via l’olio e… “

Si alza un urlo alla mia destra:

Ma No!”, è la signora Maria, “Ma Chef cosa fa? È la parte più buona, tutto quel bell’unto, ci vuole un panino e via si mangia!”

Lo Chef è basito. Iniziamo a cucinare: la prima pietanza che verrà preparata è il dolce, in modo che abbia il tempo di raffreddare, ci illustra lo Chef: “Ho pensato di proporvi una creme brulee con ribes rosso”.

Ci spiega l’esecuzione, piuttosto semplice, e incarica Bianca, dopo aver preparato la crema, di metterla negli stampi che verranno infornati. Seguo la preparazione e nel momento di infornare, penso adorante: “Ma quanto è bello questo forno!”

Passiamo alla preparazione di un tortino al radicchio rosso con fonduta all’asiago. Mi offro per preparare la pasta brisé ma ho le mani talmente calde che sciolgo il burro prima di formare la pasta. Va bene, taglio il formaggio. Nel frattempo altri preparano, sotto lo sguardo vigile dello Chef, un risotto ai porri che verrà mantecato con del caprino.

Lo chef spiega: “Prepariamo il brodo vegetale con cipolla, sedano, carota…”.

Ma scusi Chef”, sempre la signora Maria, “non è più pratico il dado Knorr?”

Lo Chef è sconcertato ma educato, non risponde.

Per secondo prepariamo una tagliata di manzo al forno, qualcuno di voi l’ha già fatta?”, chiede lo Chef.

La signora Laura: “Io sì, ma è una preparazione talmente lunga che l’ho fatta una volta e basta”.

Mi spieghi come l’ha cucinata… “, chiede lo Chef.

Ho preso il pezzo di carne, l’ho messo in forno a 200°, ho aspettato 10 minuti, ho tolto la carne dalla teglia, ne ho tagliata una fetta e ho rimesso il tutto nel forno; per tagliare tutte le fette di carne ho impiegato circa 2 ore!”

Lo Chef è depresso, ma si forza in un sorriso tirato e spiega il procedimento. Vengono infornati i tortini di radicchio e ancora una volta mi blocco davanti al forno a guardarli cuocere. Il risotto è quasi cotto, c’è un profumo di buon cibo, viene inserito il caprino e mantecato, comincio ad avere l’acquolina in bocca.

Ci sediamo finalmente a tavola, i tortini con l’asiago sono deliziosi, ottimo il risotto, qualcuno fa la scarpetta con il pane preparato dall’aiuto Chef, molto buono!

Si passa alla tagliata e la signora Maria esordisce con un: “Ma sa di carne!”

Lo Chef ammutolito sembra in trance. Questa prima serata è quasi conclusa, manca solo il dolce. Bianca se ne esce con: “Io e Dalia andiamo a finire la creme brulee!”

Siete capaci di usare il cannello?”, chiede cautamente lo Chef, “E ricordatevi anche il ribes rosso, il contrasto è favoloso”.

Ma certo”, risponde in modo piccato Bianca, “Siamo fantastiche in cucina!”

Nel frattempo il gruppo si è amalgamato, si parla, ci si confronta sulle preparazioni, una bella compagnia. Passati una decina di minuti arriva Bianca con le sopracciglia bruciacchiate, Dalia con tre dita incerottate e le creme brulee un po’ carbonizzate e un po’ pallide e tutte senza ribes rosso.

Lo Chef chiede: “Ma il ribes?”

Non era maturo Chef, era ancora aspro l’ho buttato via”, risponde con sicurezza Bianca.

Lo Chef inizia a piangere sommessamente pensando che questa è solo la prima lezione, ne ha programmate cinque. Finito di mangiare, le mie amiche mi cercano per tornare a casa e mi trovano in cucina che cerco di spostare il forno per caricarlo in macchina: “È bellissimo!”, dico sognante.

Lo chef vede la scena, diventa pallido, ha un mancamento, per fortuna l’aiuto Chef cerca di prenderlo al volo prima che cada in terra, ma scivola su degli acini di ribes rosso e va a sbattere contro il forno.

Un urlo mi esce dalla bocca: “Nooooo! Qualsiasi cosa, ma non il forno!”

“Con quello che succede in giro!” di Bianca Patrizi

Suona la sveglia e penso: “No, non adesso. Non dirmi che è già ora!”

Ho alle spalle una notte di merda: lui che russa come un mantice, io che mi giro nel letto come una trottola e come mi addormento suona la sveglia. Faccio pipì pensando che adesso mi ci vorrà mezz’ora per svegliare i ragazzi, così poi arriveranno in ritardo al bus, che poi magari lo perdono anche, così mi tocca pure accompagnarli a scuola e arrivo in ritardo anch’io al lavoro. Che se mi capita oggi, è una grana assicurata perché la mia collega non c’è. Ma proprio oggi doveva andare a fare l’ecografia? Se è incinta sono cazzi, perché quelle merde dell’ufficio personale mica l’assumono una sostituta. Allungo la mano verso il rotolo di carta igienica e scopro che è finita.

CHI CAZZO HA FINITO LA CARTA IGIENICA?”, sbraito dal bagno, “Mica fate fatica ad allungare il braccino e prendere il rotolo nuovo dal mobile, no?”

Infilo il rotolo nuovo nel supporto e mentre esco dal bagno vado a sbattere contro mio marito con la sua aria da zombie.

Era ora!”, borbotta, “Ma quanto ci stai in bagno?”

Senti chi parla!”, rispondo e mi fiondo in cucina perché adesso ho proprio voglia di un caffè. Ma prima sveglio i ragazzi.

Apro la porta, alzo la tapparella e li chiamo. Il grande si infogna sotto il cuscino grugnendo. Il piccolo non dà nemmeno segni di vita. Non so neanche a che ora è rientrato stanotte. So solo che era tardi. Chissà dove va. Chissà con chi va. In cucina riempio d’acqua la moka, ci infilo il filtro e prendo il barattolo del caffè. Che è come il rotolo di carta igienica: finito. Nel mobile non vedo il barattolo di scorta. Eppure l’avevo messo nell’elenco della spesa.

HAI PRESO IL CAFFE’?”, grido a mio marito ancora chiuso in bagno che ovviamente non risponde.

Cosa cazzo gridi?”, mi rimprovera mio figlio, quello grande, ciabattando in cucina con aria immusonita, “Possibile che gridi sempre?”

Prende un bicchiere dal mobile, la bottiglia d’acqua dal frigo e quando ciabatta verso il bagno sul tavolo rimangono il bicchiere, la bottiglia e il tappo della bottiglia. Perché rimettere le cose a posto è troppa fatica, vero? Ma è mai possibile che tutti lascino sempre tutto in giro? Poi sono io quella che rimette in ordine e pulisce.

Hai fatto il caffè?”, chiede mio marito entrando in cucina trafelato, perché anche lui è in ritardo.

Se tu avessi preso il caffè, ieri”.

Certo che l’ho preso.”

E dov’è, si può sapere?”

Al suo posto, dove vuoi che sia? Dove sono i calzini puliti?”

Al loro posto, dove vuoi che siano?”

Mollo la moka e vado a recuperare i calzini che sono sempre nel solito cassetto del solito armadio della solita camera da letto che divido con mio marito da quando ci siamo sposati, ma chissà perché lui lo domanda tutte le sante volte. Torno in cucina alla ricerca del caffè. Lo trovo, ma quello stordito l’ha preso in chicchi. E cazzo, però anche lui, per una volta che va a far la spesa! Così faccio quello deca, che non piace a nessuno, ma è l’unico che ho.

Che caffè di merda!”, brontola mio figlio e pianta lì la tazzina in mezzo al tavolo, raccoglie lo zaino ed esce sbattendo la porta.

Ciao, io vado”, mio marito mi mette in mano la tazzina vuota e si fionda giù dalle scale perché il suo collega è sotto casa e ha già suonato due volte il clacson.

L’altro figlio è uscito pure lui senza nemmeno salutare. Spero solo che vada a scuola e non in giro. Lancio un’occhiata all’orologio pensando che arriverò in ritardo. Prendo la moka per versarmi il caffè, ma la moka è come il rotolo di carta igienica, come il barattolo del caffè buono: vuota.

Al lavoro non va meglio perché la giornata ha preso una brutta piega. La stampante non funziona e il mio capo vuole le copie dell’ultimo rapporto settimanale. Devo andare al piano di sopra e lì hanno tutti la puzza sotto al naso. Manco a dirlo trovo la troiona dell’ufficio statistica che sta fotocopiando un manuale e ne avrà per un bel po’. Manuale di che, lo sa solo lei. Forse del Kamasutra. Come se non ne sapesse già abbastanza. Lei e il suo culo rifatto! E c’è ancora qualcuno che si domanda perché l’hanno assunta. Torno al piano di sotto e vado in archivio. Lì c’è una vecchia stampante, un po’ lenta, ma mi tocca. Mi tocca anche “Manina morta”. Quello proprio non lo sopporto. Mi ricorda tanto il vicino di casa di quand’ero piccola, con l’alito che puzzava di aglio e le unghie nere.

Alla mensa arrivo tardi perché la fotocopiatrice dell’archivio è davvero una lumaca. È rimasta solo la pasta che di sicuro ormai è fredda e ci scommetto che le cotolette saranno secche. Guardo l’orologio. Sono di nuovo in ritardo e so che qualsiasi cosa prenderò, mi rimarrà sullo stomaco.

Tornando a casa mi fermo dal parrucchiere perché stasera esco a cena con mio marito. Non mi sembra vero. Solo una pizza, ma è una vita che non usciamo. Corro a casa e preparo la cena per i ragazzi. Poi una doccia veloce. Mi sto truccando quando chiama mio figlio, quello grande e mi dice che sta a cena e a dormire da un amico. Poi chiama mio marito e mi informa che il suo capo ha indetto una riunione straordinaria e che farà tardi.

Ma tanto non è un problema, vero?”, non lo chiede, lo dà per scontato, “A mangiare la pizza ci andiamo un’altra volta”.

Riattacco e ripenso alla troiona dell’ufficio statistica che fotocopia il manuale del Kamasutra e mi domando se ce n’è una anche nell’ufficio dove lavora mio marito, se devo cominciare a preoccuparmi di rimanere sola con due figli come è capitato alla cassiera dell’Iper che una sera torna a casa e trova il marito sulla porta con la valigia in mano. Con l’abito bello, mezza truccata mi siedo al tavolo di cucina davanti alla cena che si fredda. Prendo il cellulare e chiamo mio figlio, il piccolo. Sono pronta a dirgliene quattro per quel suo brutto vizio di non avvertire quando fa tardi. Va e viene come se la casa fosse un albergo. Il suo cellulare squilla a vuoto, ma lui non risponde. Mi domando dove sia. La sirena di un’autoambulanza che si avvicina mi fa accapponare la pelle e mi alzo di scatto, vado alla finestra e guardo giù, in strada. Anche mia madre stava telefonando a papà, per dirgliene quattro perché era in ritardo e la cena si freddava, ma allora al cellulare aveva risposto una voce sconosciuta per dirle che c’era stato un incidente… Accendo la radio e una voce femminile, trillante e gioiosa sta parlando di pensiero positivo. Ecco, adesso la giornata è al completo: dopo la Troiona del Kamasutra, la sensitiva olistica che invita all’amore universale. Con quello che succede in giro!

“Futuro” di Giovanni Zambiasi

Il Natale era appena passato e la famiglia riunita nell’antica malga si preparava al ritorno. Gli zaini sono quasi pronti, mancano solo le ultime cose, quelle che servono fino alla partenza e che a volte si dimenticano… soprattutto in luoghi che si amano e dove inconsciamente si lasciano pezzi di noi.

Nonno Giacomo scruta il cielo seduto sul ceppo di acero fuori dal portico, le nuvole corrono verso est: buon segno. Il cammino che li aspettava sarebbe stato più difficile con la pioggia o la neve ad accompagnare il gruppetto. Il freddo saliva dalla valle in modo proporzionale al calar del sole, era tempo di ravvivare il fuoco e rientrare nel tepore della casa, protetti dai solidi muri di pietra spessi un metro.

I bambini sempre ultimi, arrivano solo all’imbrunire, delusi di non aver visto i cinghiali che di solito al tramonto risalgono il bosco fino al prato, alla ricerca di radici, vermi o piccoli tuberi. L’acqua bollita con in infusione le erbe essiccate in primavera e un cucchiaino di miele si trasforma in una profumata tisana: ottimo combustibile per l’anima e il corpo, catalizzatore di adulti e bambini. Tutti seduti attorno al tavolo di castagno a sorseggiare e sgranocchiare i biscotti fatti con le noci raccolte a pochi metri dalla casa, regalo prezioso degli alberi.

Ormai l’alleanza tra la famiglia di Giacomo e la foresta era diventata la normalità: per avere la legna bastava raccogliere le piante e i rami secchi caduti, senza tagliare inutilmente esseri silenziosi ma vivi. Tutti loro sapevano bene che le piante vivono sotto terra, le foreste sono solo la parte che vediamo, gli alberi sono connessi, le radici scambiano messaggi, si intrecciano creando canali di informazioni ed energia. Tagliare le piante non disturba molto il mondo sotterraneo di solito felice di donare parte di sé per contribuire alle necessità dei loro amici. Tagliare rinforza le radici che si stringono di più alle pietre con cui condividono lo spazio. Solo alcune famiglie di alberi hanno radici incapaci di rigenerarsi e muoiono se tagliati: i pini, gli abeti, i cedri. Loro sono tutti fuori, antenne rivolte all’infinito quasi a tentare il balzo verso il cielo e dimenticare le città sotterranee, solo i frutti rigenerano il loro popolo.

Nonno, racconta ancora del tempo prima del virus… per favore finisci la storia?”, Rebecca la più piccola dei bimbi dà voce a tutti gli altri e le occhiate delle mamme, felici di vedere i figli tranquilli e fermi, convincono nonno Giacomo al racconto.

Dove eravamo arrivati? Ah, certo, quando io e il Gioanì siamo rimasti di stucco a rivedere Angelo e a sentire le sue parole… “, inizia il racconto mentre sulla vecchia stufa ribolle la minestra.

Angelo aveva avvertito del pericolo e le sue parole non erano solo fantasia, ai tempi fu mio dovere fare un rapporto ufficiale e anche i giornali ne parlarono, ma nessuno diede troppo peso alla cosa, troppo impegnati in affari e commercio, troppo influenzati dai social e dalle Tv… ”

Nonno cosa sono i social?”

Rebecca chiedilo alla mamma, lei si ricorda meglio del nonno… Insomma tutto il mondo viveva senza rendersi conto che nessuna moneta avrebbe potuto ricostruire quello che stavano distruggendo, senza pensare che la vita dipendeva dalla terra, dagli alberi e dagli animali e che tutti siamo uno.”

E il virus cosa c’entra?”

Il giorno che Angelo aveva predetto arrivò e, pian piano, tutti… ricchi, poveri, giovani e vecchi si ammalarono. Tanti morirono, ma il grande problema fu il crollo di quel mondo virtuale che funzionava con i soldi. La malattia non permise di lavorare e guadagnare per poi spendere e la grande ruota del consumismo, prima iniziò a rallentare e in un paio d’anni si fermò”

Nonno… spiegaci meglio”

Allora… Vi ricordate la frana della Val Degagna? Uguale: gli uomini avevano costruito paesi e strade senza fare i conti con i torrenti della montagna e un bel giorno venne giù tutto, ci furono morti e distruzioni e tutto sembrò finire…”, Giacomo ricordava come fosse ieri i racconti dei carbonai e dei malghesi seduti attorno al fuoco a ricordare quanto fosse stato importante restare uniti a ricostruire la valle, tutti insieme spostarono i paesi a monte lontano dai pericoli del torrente e dalle frane che causava.

La malattia e la frana ebbero lo stesso risultato. Dopo un lungo periodo di sofferenza e di povertà, tutti capirono che non era possibile tornare indietro, la sofferenza diventò solidarietà e la povertà ricchezza. Oggi voi bambini sapete di essere uniti a Madre Natura, la rispettate e la proteggete perché noi vecchi ci siamo ricordati chi eravamo e grazie al virus siamo cambiati in tempo e abbiamo scoperto il segreto, ovvero: siamo solo lo spirito della terra che ha voluto diventare umano. Avevamo dimenticato di essere terra, di essere aria, acqua e fuoco e voi bambini adesso non dovete dimenticarlo, ma custodire nel cuore questo segreto e donarlo ai figli che verranno… ”

Il sole ormai alto illumina la valle e con gli zaini in spalla il gruppo segue a ritroso il sentiero vecchio, la via dei cuel che li riporterà al paese. Giacomo come sempre guida il gruppo regolando il passo per permettere anche ai più piccoli di seguire senza fatica.

Arrivato al dosso dei Persenic alza lo sguardo con la certezza di intravedere sul profilo della montagna le sagome di Angelo e Gaia, loro sono là ad osservare felici il nuovo divenire dell’uomo, potenti custodi della Valle e per sempre innamorati.

“Frammenti di futuro” di Giovanni Zambiasi

Giacomo e i colleghi avevano passato giorni cercando nella valle, senza risultato, nessuna traccia, niente di niente. Angelo era sparito ormai da dieci giorni e anche la stampa se ne stava occupando spingendo tanti cacciatori e guide improvvisate a cercare… mancavano solo i Boy Scouts.

Giacomo non riusciva a darsi pace, il ragazzo non poteva essere sparito nel nulla!

La malga era diventata il campo base della ricerca e Giovanni, malgrado la scelta di solitudine, era il vero punto di riferimento per tutta la squadra: dettagli di sentieri, anfratti da controllare, direzioni da esplorare… un vero database geografico vivente della vallata oltre che cuoco stupefacente, capace di creare piatti buonissimi utilizzando i pochi ingredienti a disposizione. La sera accoglie il rientro della squadra, l’ultimo giorno di ricerca disponibile era stato ancora vano, il niente li accompagnava insieme alla consapevolezza che dal giorno dopo tutto finiva. Angelo sarebbe diventato uno tra i molti scomparsi nel mondo. Camminano in fila con in testa Giacomo e Paolo, in silenzio, Paolo è il primo a parlare: “Che profumo… il Gioanì deve aver preparato qualcosa di speciale”.

In effetti l’aria era invasa da qualcosa che Giacomo ben conosceva: “Sembra spiedo!”

Giovanni li vede arrivare stanchi e, tutto orgoglioso sentenzia in Italiano: “Il ragazzo non si è trovato vivo, ma nemmeno morto… quindi seduti e mangiamo”. La polenta, rovesciata sul tagliere di faggio con lo spago per tagliare la fetta arrotolato sul manico, il bottiglione di rosso del Balì (famoso per l’uvaggio fruttato di Clinto), il formaggio che avrebbe sostituito il dessert e lo spiedo “sforcolato” nella grande teglia rianimano il gruppo.

La ricerca di Angelo e i luoghi esplorati uniscono i sei uomini che in pochi giorni sono diventati amici, la condivisione di quei giorni li aveva fatti diventare fratelli. Angelo non era con loro ma loro si erano trovati. L’ultima grappa e un buon caffè concludono la serata, i saluti e la voglia di rivedersi presto precedono i fari dei fuoristrada che lentamente illuminano la notte sempre più lontano, giù nel fondovalle.

***   ***   ***

Buongiorno Giacomo… l’en po che te te fe mia veder!” [trad. “Buongiorno Giacomo… è un bel po’ che non ti fai vedere!”]

Buongiorno Giovanni oggi non lavoro, ma avevo voglia di passare da queste parti…l’è ormai quasi n’an e mes che vegne mia sò” [trad. è già più di un anno che non vengo sù… ]

Erano passate due stagioni e questa era l’ultima per il malghese e forse l’ultima anche per la malga. Era già Settembre e nessuno ancora aveva presentato l’offerta per le stagioni 2013-2018, ancora poche settimana e l’asta sarebbe andata vuota. Chiacchierano e ricordano camminando vicini a scendere il sentiero che dal Prà Calvis riportava al casale, tante cose da ricordare e tante nuove da raccontare.

Fermet a disnà… so semper che sul… no volta che te vede scapa mia!” [trad. “Fermati a pranzo… sono sempre solo e adesso che ti vedo mica scapperai!”]

Grazie mi fermo volentieri, nello zaino ho del pane con il salame e un po’ di frutta…”

Te lase la frutta… ma vores tastà el salam specialmente se le bù” [trad. “Ti lascio la frutta… ma vorrei assaggiare il salame, specialmente se è buono”]

Da dove sbucasse il bottiglione di vino era sempre un mistero, ma di fatto compariva dal nulla. Il tempo di qualche fetta di salame con un po’ di pane e la pasta con le farinelle [trad. spinaci selvatici] e il pestom [trad. pasta di salame] e il pranzo fu servito: nessuna cifra in denaro poteva pagare quei sapori unici, antichi e interpretati ogni giorno in modo diverso, impossibili da replicare.

E cosa dire del formai so la gradela?! [trad. formaggio alla brace] Alchimia di temperature e consistenze, sbagliare l’una o l’altra è l’inizio della fine: il tutto precipita nella brace lasciando il vuoto e la delusione. Privilegi favoriti dal Rosso ricco di profumi e dei tannini del Clinto in attesa del caffè e dell’immancabile grappa come gran finale.

Improvvisamente la porta si apre e il ragazzo vestito in modo strano per quei luoghi entra e si siede sul gradino del fuoco. Giacomo precipitando dall’estasi sensoriale dovuta alla cucina non fa in tempo a salutare, Giovanni con la moka da sei in mano resta muto a guardare.

Buongiorno, sono passato a ringraziare, a ringraziare per tutto quello che mi hai permesso di scoprire…”

Il ragazzo si rivolge al vecchio malghese con tono gentile ma distaccato, rispettoso e allo stesso tempo informale. Giacomo si chiede chi possa essere e come mai si trovasse lì vestito come il suo vecchio professore di matematica, vorrebbe ricambiare il saluto, presentarsi… ma il ragazzo non lascia spazio.

Ho trovato la cascata! Ho attraversato l’acqua, ho trovato l’amore e ho scelto di restare. Loro mi hanno insegnato a guardare con gli occhi dello spirito, ad ascoltare le pietre e comunicare con gli alberi. Loro mi hanno permesso di essere qui adesso per consegnarvi il messaggio delle pietre. Il popolo delle pietre sono la memoria del pianeta, sono ovunque. Nere e bianche, rosa e beige, piccole e grandi, giovani e antichissime, loro parlano, parlano attraverso i sogni in un livello di realtà diverso da quello che siamo abituati a vivere ogni santo giorno… bisogna saperle ascoltare. Le pietre si muovono, ci trovano… sono la voce della Terra e oggi stanno gridando. Ma nessuno le ascolta e per questo devo avvisarvi: sarete testimoni di una grande malattia che cambierà l’ordine della società, un’arma perfetta colpirà l’uomo che è la più grande minaccia per il mondo verde e per la stessa Madre Terra. Il popolo delle pietre, la foresta e tutti i suoi abitanti sono sul piede di guerra e il tempo sta finendo. La madre Terra sta per impartire la lezione al proprio figlio, all’uomo che ha dimenticato i suoi fratelli… “

Il silenzio si taglia con il coltello nella grande cucina, il ragazzo si alza e saluta Giovanni rassicurandolo: “Nessuno e niente ti farà mai del male”.

Angelo… ”

Il primo a parlare è il malghese, ancora congelato nel movimento, ancora fermo, sospeso tra il fornello e il tavolo con la Bialetti in mano e il caffè in equilibrio, guarda il forestale ancora sbalordito.

Fuori non si vede nessuno, il ragazzo non c’è più e il vento da voce agli alberi. Il mormorio delle foglie adesso è assordante.

 

“L’albero di Natale” di Alessandro Tondini

Il suo primo ricordo era un albero di Natale e un biberon. Ne era certo, non aveva dubbi, tranne uno: se il suo primo ricordo era un albero di Natale non poteva essere l’albero di quel Natale. Era nato l’antivigilia di Natale di un anno in cui mezza Italia era stata sommersa dalla pioggia. Oltretutto era nato in mezzo all’acqua perché venuto al mondo a Venezia.

Il suo ricordo doveva appartenere al Natale dell’anno dopo. Essere nato poco più di un mese dopo un’alluvione disastrosa in una città già circondata dalla laguna l’aveva esposto a un grosso pericolo: avrebbero potuto chiamarlo Mosè. Così, per ridere. Per fortuna sua madre non aveva mai avuto tanta voglia di ridere.

Era sicuro, l’anno successivo al suo primo Natale sua madre si avvicinava alla culla e gli dava un biberon, senza sorridere. Vicino a lui un albero, illuminato da tante lucette colorate, gli sorrideva. Si dice che i bambini, quando ridono, sorridono agli angeli, lui sorrideva al suo albero di Natale.

Da allora è sempre stato così: ogni volta che arrivava il Natale aveva voglia di sorridere, di avere vicino il suo albero colorato e di bere qualcosa. Qualcosa che lo facesse sorridere. Pare che nel periodo natalizio vi sia un aumento esponenziale dei suicidi. Lui non ne aveva mai avuto l’istinto, forse perché era dotato di senso dell’umorismo e nel suo frigo non mancava mai una birra.

Se beveva diventava allegro, al contrario di sua madre che aveva la balla triste. Ma sua madre era triste anche quando non beveva. Suo padre invece beveva di rado, era un tipo allegro, benché dotato di scarsa ironia. Ma allora da chi aveva preso il suo senso dell’umorismo se i genitori non eccellevano in quel campo? Da nessuno. Era stato quell’albero illuminato a farlo ridere, a dirgli che tutto sarebbe andato bene e di non preoccuparsi perché ci sarebbe sempre stato qualcosa da bere.

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Buon Natale a tutti gli Instabili,

Alessandro Tondini

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“La scelta di Mr. Owe” di Barbara Favaro

Il naso appiccicato alla vetrina, dentro al negozio una bambola grande almeno quanto lei. C’era la neve, lì fuori, bianca e marrone dove le ruote delle biciclette l’avevano marchiata e l’acqua putrida della strada si era mescolata al candore dei cristalli.  Le piaceva la neve, ma faceva freddo. Aveva i piedi quasi blu sotto le calze sporche, infilati in sandali estivi. Viveva all’angolo tra la 33esima e Avenue Gold, con il Nonno ancora in gamba che suonava il flauto traverso come un usignolo a primavera. Aveva le mani semiprotette da guanti di lana tagliati sui polpastrelli e lo sguardo buono.

Il naso appiccicato alla vetrina lasciava dei segni e Mr. Owe cercava di sopportare, ma dopo un po’ sbroccava: “Vattene Lily, disturbi i clienti che vogliono entrare!”. Lei diceva sì con la testa, sorrideva, faceva il giro dell’isolato e poi ritornava lì. Parlava poco Lily, parlava più che altro nella sua testa e solamente con la bambola in vetrina. Erano amiche. No, non la voleva per sé, la voleva lì dentro accanto agli altri (tutti gli altri giochi) al caldo e al sicuro. Ci teneva che almeno lei avesse una casa. Almeno lei.

Mr. Owe aveva avuto un paio di occasioni per vendere quella bambola, ma non poteva reggere al pensiero di quel visetto con il naso all’insù appiccicato alla vetrina in preda al panico qualora non avesse più trovato la sua amica al proprio posto. Aveva deciso che l’avrebbe lasciata lì, come guardiana del suo negozio. Andava bene così. Lily non lo sapeva, non voleva pensarci, era sicura che la sua amica si sarebbe rifiutata di uscire dal negozio per trasferirsi altrove però. Era il loro patto.

Quel Natale aveva portato il solito scompiglio sulle strade, gente frettolosa e accigliata che si mescolava con i cultori dei pacchetti e pacchettini con fiocchetti e fiocchettini. Il Nonno aveva cambiato il repertorio classico con le melodie natalizie, qualche moneta in più riusciva a guadagnarsela e Lily sorrideva felice perché a lei il Natale piaceva. Andavano insieme alla Chiesa di Santa Lucia e mangiavano con gli amici del Nonno la zuppa servita dai volontari. Qualcosa ci scappava sempre, un dolcetto in più per lei sbucava fuori come per magia perché era la più piccola e tutti la tenevano d’occhio. Era la bimba più protetta della città, a vederla bene. Perché le cose bisogna vederle bene per conoscerle.

Mr. Owe era un po’ giù di corda, invece. La signora Owe se n’era andata in primavera con un mercante di stoffe, lo aveva lasciato senza neppure guardarsi indietro una volta. Lui se lo aspettava da tempo, l’aveva vista sempre più gelida nei suoi confronti, ma non aveva voglia di trattenere nessuno. Lui non mendicava.

Aveva quindi deciso di trascorrere la notte di Natale a fare i conti, nel retro del negozio, e portarsi un po’ avanti con le pulizie. Sì, s’era un po’ lasciato andare e il negozio ne pagava le conseguenze. S’era dato una svegliata la mattina in cui alzando la testa dalla scrivania aveva buttato a terra le tazze sporche delle ultime tre cene solitarie. Aveva sentito dentro la testa la voce della signora Owe che gli urlava: “Scendi dalle nuvole, Herbert! Guarda che disastro!”. Come darle torto?

Aveva ricominciato a nevicare, Mr. Owe era sul retro a fare di conto, la stanza conteneva una brandina e un fornello, avrebbe potuto trasferirsi lì definitivamente, ma ancora non si era deciso, dopotutto l’appartamento dove aveva vissuto per tutta la vita era per la prima volta completamente a sua disposizione, senza genitori anziani da accudire, senza moglie a fare e disfare a seconda dell’estro che le prendeva e senza più il vecchio Charlie – il pappagallo più pettegolo del mondo – volato all’altro mondo per un’indigestione letale. No, se lo sarebbe goduto per un po’ quel luogo, in santa pace finalmente!

Mentre annuiva tra sé e sé a quel pensiero risoluto, sentì una vocina squillante provenire dalla strada: “Nonno, facciamo gli auguri a Bea!”. Era Lily, sicuramente. Incuriosito, senza accendere la luce, si affacciò nascondendosi dietro il bancone e spinse lo sguardo oltre la vetrina che luccicava. Lily aveva un capottino nuovo, di seconda mano certamente, ma in buono stato. Sembrava lei stessa una bambola, una bambola felice.

Buon Natale Bea!”, disse il Nonno ridendo.

Ora, appiccicati alla vetrina c’erano due nasi e Mr. Owe si mise a ridere. Si avvicinò alla porta d’entrata, aprì e li guardò: “Perché non entrate? Ho con me del pan dolce, del vino e del latte fresco, possiamo brindare insieme”, disse guardando il Nonno che sembrava piuttosto stupito.

Possiamo brindare con Bea?”, chiese Lily speranzosa.

Certo… ho sedie sufficienti per tutti, credo”, rispose Mr. Owe.

Nonno e Lily si guardarono, sembrava un invito provvidenziale, perché no? Mr. Owe fece un cenno con la testa, un “entrate” molto delicato, e si avviò sul retro:

Lily, prendi Bea e portala con te”, disse gentilmente.

Lily si avvicinò cauta alla sua amica, non voleva combinare un disastro buttando a terra tutti gli altri giocattoli appostati in bella mostra. Bea era più pesante di quello che Lily immaginasse, Nonno l’aiutò e Lily se l’abbracciò stretta per non farla cadere.

Venite, è tutto pronto”, annunciò Mr. Owe.

In effetti era proprio un bel vedere: la scrivania era libera dalle cartacce, c’erano quattro piattini per il dolce e in ognuno era adagiata una fetta dorata e invitante. Due bicchieri mezzi colmi di vino frizzante, una tazza di latte tiepido:

Lily, ti dispiace dividere il tuo latte con Bea? Temo di non avere una tazza anche per lei… “, si scusò Mr. Owe.

Certo, Mr. Owe, beviamo insieme”, annuì sorridendo mentre sistemava sulla sedia la sua amica che faceva un po’ fatica a piegare le gambe e tendeva a scivolare un po’. Nonno l’aiutò a sistemarla, poi con un hoplà! issò la nipotina sulla sedia accanto a sé e dopo aver chiesto permesso si sedette a sua volta. Mr. Owe fece altrettanto. Si guardarono un po’ in imbarazzo i due uomini, uno più giovane ma triste, uno più vecchio ma decisamente felice.

Iniziamo?”, chiese Lily che aveva ancora fame, anzi, per quanto fosse piccola lei aveva sempre fame.

Dopo di lei, signorina Lily”, disse Mr. Owe divertito.

Lily staccò un pezzo di pan dolce e lo fece provare a Bea, che approvò soddisfatta. Poi se lo mise in bocca, chiuse gli occhi e sospirò:

Delizioso!”, come se fosse una signora di mezza età con le amiche del circolo all’ora del tè.

I due uomini risero di gusto, l’imbarazzo si sciolse. E si sciolse un po’ anche il cuore di Mr. Owe che sentì un po’ di sollievo. Si guardò intorno, quella stanza avanzava. Lui doveva ritornare su, nel suo appartamento, non doveva più rifugiarsi lì dentro per non dare fastidio agli altri coinquilini. Annuì deciso.

Ho bisogno di un aiuto qui in negozio, qualcuno che tenga d’occhio i giocattoli, che spolveri di qua e di là… vi potrebbe interessare?”, chiese al Nonno. Nonno lo guardò senza parole. Beninteso, tutto pagato e… potreste occupare questa stanza per comodità. Il bagno è ben funzionante, c’è solo da aggiungere una branda e poi posso portare giù dei piatti e dei bicchieri dal mio appartamento… “, aggiunse sperando di essere convincente.

A Nonno si riempirono gli occhi di lacrime, Lily aveva la bocca spalancata.

Certo, sarebbe un cambiamento importante per voi… potete prendervi tutto il tempo che volete per decidere… “, Mr. Owe stava dubitando di aver fatto la cosa giusta, sperava di non aver offeso quell’uomo con la sua offerta.

Sarebbe un onore poter lavorare per lei, Mr. Owe”, rispose finalmente Nonno.

Lily chiuse la bocca per sorridere: Mr. Owe, dovrebbe mangiare il pan dolce è buonissimo!”, squittì con il cuore pieno di gioia.

Bea era d’accordo, su tutto. E il Natale iniziò.

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“Figure di cartone” di Marcello Rizza

Il randagio si avvicinò lasciando le sue impronte sulla neve fresca, si fermò felpato e plastico a tre metri da lei, la guardò come chi firma un armistizio col nemico e si infilò dentro il cartone per scaldarsi. Pur sorpresa lo lasciò fare e si limitò, infilandola in una larga tasca, a salvare dagli artigli la sua bambola col vestitino color pesca e macchie d’olio, con le trecce di lana biondo infeltrite, con gli occhi di plastica che una volta erano stati azzurri come quelli di Aurora. Non le era mai successo, i gatti randagi non sono i compagni più socievoli, vivono ai margini dello spazio vitale dell’uomo, ma questo era particolare, ad accarezzarlo se ne stava coccolone a prendersi le moine. Come criticarlo? A chi non piace qualche tenerezza sul pancino, il caldo del cartone quando fuori nevica? Era lo scatolone di un televisore, leggero e caldo, profumava di pulito, di cellulosa e di ospedale. I migliori sono quelli dei tivù al plasma. Si trovano facilmente nelle discariche. Sono ampi, rinforzati, pieni di imbottitura con bolle d’aria che puoi usare per cuscino e tengono caldo.

Non le importava molto di quella invasione randagia, era sorpresa dalla bellezza del paesaggio. Si trovava dove voleva da sempre essere la sera di natale, guardava il circondario seduta sopra una panchina di ferro, verde, col metallo intarsiato, sulla riva del fiume a San Pietroburgo. Nevicava, col suo corollario di candidi fiocchi poetici e nemmeno faceva freddo, e infatti, senza temere l’inverno e confidando nei pochi stracci di cui era vestita, si sedette facendo scivolare sul prato la coperta dei clochard. Era estasiata, guardava a lato lo scorrere quieto del Neva, poi si volgeva verso il parco qua e là brillante di soffice neve per ancora alzare la testa e fissare la magnificenza del Palazzo d’Inverno. Era uno scenario molto diverso da quello bellissimo offerto dai colonnati di San Pietro dove, per un tacito accordo con la Chiesa, lei e altri trovavano ospitalità. In tanti si trovavano lì e senza clamore, di sera, i preti portavano a lei e agli altri qualcosa da mangiare e quella splendida cornice di colonne e l’imponenza della Basilica erano splendide. San Pietroburgo era però un sogno che finalmente si realizzava. Aveva visto anni prima, fuori da una agenzia di viaggio, una bellissima immagine del natale della incantevole città russa e se ne era innamorata: un grande giardino con una fontana che si trovava a sinistra dell’Hermitage, abbellita con una meravigliosa cascata giocosa di zampilli illuminati, lampadine e cristalli di neve, con una galleria di archi traforati che coi lampioni gialli creava un ambiente dove è giusto sognare.

Finalmente era lì e mentre che si riempiva gli occhi di bellezza si sentì prendere per mano con una stretta leggera e morbida. Si volse e si sorprese di vedere una bambina, forse era Aurora, non la vedeva da almeno quarant’anni. Il randagio guardò, forse intuiva che stava accadendo un fatto privato più importante delle carezze.

Aurora, sei tu bambina mia? Cosa ci fai qua? Non è un posto per te”, guardandosi e guardando il suo giaciglio di cartone.

Perché no? Se ci stai tu posso starci anche io.”

Irene capì che qualcosa non funzionava, che ciò che è troppo bello è anche sospettoso, non poteva essere la sua bambina che aveva abbandonato scappando quando le dissero che era strana, che era pericolosa, e la imbottivano di pastiglie e di iniezioni. E nel momento del sospetto la stretta di mano della bambina divenne più importante.

Non sono Aurora, Mamma. Sono Gesù Bambina, come mi hai sempre sognato. Avevi ragione, sai? Gesù Bambino aveva una sorellina che si chiamava come lui.”

Quante cose belle le stavano accadendo! Ora aveva anche la conferma che non era pazza come le dicevano tutti, esisteva Gesù Bambina. E poi si insinuò in lei il dubbio che nasce da una esperienza di strada vagabonda dove anche quando dormi devi stare in allerta.

Non puoi essere Gesù Bambina, mi hai chiamato mamma. Tu sei Aurora, anche se non assomigli molto a tuo nonno. Lo ricordo… portava sempre nella tasca destra dei pantaloni una castagna matta quando mi portava con sé per funghi, diceva che portava fortuna e tornavamo sempre col cestino pieno”, e poi si chiese se non stesse sognando.

E se fosse? Il sogno è quel momento perfetto che condividiamo con Dio. Anche lui ama sognare cose belle.”

Ma tu mi leggi nel pensiero?”

Non pensi che Gesù Bambina possa farlo?”

Si, e allora non sei Aurora.”

Irene si tolse dalla stretta della bambina, prese in braccio la bambola, si parò con una caricaturale espressione altera, dignitosa e cortese, così buffa per una clochard, e le disse: “Signorina Gesù, La ringrazio per essermi venuta a trovare. Si può fermare qui con me se lo desidera, ma se Lei non è Aurora preferisco continuare a guardare le luminarie del Palazzo d’Inverno”.

Va bene, allora. Sono Aurora, Mamma,” e trasse dalla tasca una castagna matta, “e ora starò sempre con te, staremo sempre assieme”, Le riprese la mano, “ora dobbiamo andare mamma”. 

Irene sbarrò gli occhi, dimenticò di colpo il Palazzo d’Inverno, si fece condurre via e dopo tanti anni fu felice.

Giulia, così ordinaria con i capelli raccolti a crocchia e gli occhiali sul naso, con quel camice da lavoro che nascondeva le forme attrattive delle donne, non aveva una grande considerazione di sé. Pensava a quel ragazzo che l’aveva conquistata dicendole che lei riusciva a sfioragli la mente. Pensava ad Antonello, a perché non aveva funzionato. Non si sentiva speciale, lui le aveva detto che invece sì, che era “qualcosa di più”, che lei era una gran parte di lui e ci aveva creduto per tre anni. Era così speciale che con Antonello andò a puttane, lui andò a puttane, uno strano modo per convincerla. Continuava a chiedersi quale fosse il suo compito, quali doni possedesse, non era stata nemmeno capace di tenersi stretta un uomo. Tutti hanno un disegno e uno scopo nella vita, semplicemente non intravedeva la magia di quel disegno e scopo per quanto la riguardasse. Non valeva la pena di vivere una vita inutile come la sua, così pensava.

Aveva studiato filosofia e poi fatto un corso come infermiera professionale, infelice relazione di ambiti che portano a ragionare sulla morte anzitempo quando non si è dell’umore giusto, quando lavori in quei reparti. Aveva una particolare sensibilità nel capire il momento esatto in cui le persone ricoverate all’ospedale dove lavorava erano sul punto di morire. Era di turno quella notte, era Natale. La clochard, una donna minuta dall’età indefinibile, senza documenti e senza un nome, era in fin di vita. Lo dicevano i grafici delle attrezzature mediche che la monitoravano e lo presagiva in qualche modo lei grazie all’unico dono che possedeva e di cui avrebbe fatto volentieri a meno. La poverina era stata tormentata e cosparsa di benzina da balordi che non sapevano come passare il tempo. Stava morendo sedata e sperava che non soffrisse per le gravissime e inguaribili ustioni. L’aveva calmata, placata con morfina e altri intrugli che conosceva bene. Sarebbe stato a breve, lo faceva con tutti i moribondi che non avevano persone care al loro capezzale: sarebbe andata a tenerle la mano, l’avrebbe stretta con affetto con la sinistra e con la destra avrebbe monitorato il polso fino a sentirlo cessare di battere. Arrivò giusto in tempo, gli ultimi due minuti. Le prese la mano, la tenne stretta a sé fino a quando venne a mancare il polso, fino a quando non sbarrò gli occhi e se ne andò. E poi tornò ai suoi doveri, chiedendosi quale fosse il suo compito nella vita.

Di fuori soffici fiocchi calavano a coprire e a scaldare la terra e le orme di un gatto si dirigevano lontano dall’ospedale.

Note dell’Autore:

https://www.adnkronos.com/fatti/cronaca/2019/01/31/clochard-bruciato-vivo-pena-sospesa-per-enne_FZeNCnF82j1E6NGqrgtqkI.html

https://www.youtube.com/watch?v=ZFWb77PG5mA

https://www.youtube.com/watch?v=doffpjavNbM

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